Una storia familiare, di Nicolas Rucci

Dall'Argentina ecco il racconto della storia d'emigrazione della famiglia Rucci

( 20 Gennaio 2011 )

Prologo

Questa è una storia semplice e comune. Ce ne sono trenta milioni di storie come questa. Una per ognuno degli italiani che ha emigrato nel mondo. Alcune saranno più interesanti, altre non tanto. Molte saranno narrate meglio. Alcune racconteranno piu trionfi, altre più fallimenti. Alcune con aneddoti piu felici, altre più dolorose. Ma tutte meritano essere ricordate con  rispetto perche sono la savia che nutrisce il tronco delle famiglie italiane che abitano terre lontane. Tutte contengono gli stessi ingredienti che fanno parte della condizione umana: l’amore, il rancore, l’ambizione, il trionfo, il fallimento, il perdono, l’intoleranza, la gioia, il dolore, la nostalgia, il sacrificio e la tristezza. È per questo che tutte sono bagnate dalle lacrime. In tutte, i suoi protagonisti hanno vinto qualche battaglia personale e hanno avuto il loro momento di gloria. In tutte, in qualche modo, qualcuno ha attraversato il suo proprio Rubicone. In tutte, in qualche momento, la fortuna è stata data. In questo senso, questa è uguale alle grande storie del mondo.

Capitolo I: Un giovane con illusioni. 1864-1865

La primavera di 1864 era stata specialmente calda in Toscana. Nella chiesa di San Giacomo, patrono del paese, si sposava Nicodemo, un giovanotto di 19 anni, pieno d’illusioni, con Rosa, un anno più grande di lui. C’era poca gente in parrocchia e la cerimonia finì rapidamente.

Pochi anni prima, la Toscana si era annessata al regno d’Italia e Vittorio Emmanuele II era coronato come primo re dell’Italia unificata e anche se mancava annettere Venezia e Roma, l’unità era quasi completa. Finivano i tempi dell’ eroismo, per cedere posto a quelli dell’organizzazione. C’era tutto da fare ma mancavano le risorse economiche e avanzava la mano d’opera. Da poco si incominciava a parlare di emigrare in America.

Passarono 9 mesi dal matrimonio quando in paese nasceva un bambino a cui fu imposto il nome Arturo. Era il primogenito ed era maschio. Tutte le illusioni e le speranze di Nicodemo erano messe su suo figlio. In quel momento ebbe coscenza che da quel giorno doveva incominciare a pianificare un futuro migliore  per la sua famiglia.

Nel frattempo, Garibaldi, che aveva ancora tanto da fare per l’Italia, rifiutava l’oferta di unirsi alla Guerra Civile Americana, fatta dal presidente degli Stati Uniti, Abraham Lincoln, il quale fu assassinato nello stesso anno.

Nonostante amarla intensamente, Nicodemo non trovava nella sua cara Italia, l’opportunità di sviluppare il futuro che sognava e per questo motivo decise di emigrare in Argentina, tagliando così il cordone ombelicale che manteneva uniti i suoi antenati con il paese. Sarebbe una emigrazione temporaria dato che pensava ritornare al più presto possibile. La formula era semplice: viaggerebbe lui per primo, una volta stabilito e con lavoro, chiamerebbe la sua famiglia, guadagnerebbe molti soldi e in pochi anni tornerebbero tutti insieme in Italia.

In novembre 1865, usci di casa sua  di corsa, attraversò il Ponte Vecchio, sopra la Turrite ed arrivò in chiesa a raccontare la sua decisione al parroco ed a fare una promessa. Il prete l’ascoltò e prese nota nei suoi archivi, lo benedì e pregò per lui. Nicodemo si inginocchiò di fronte a l’altare e fece questa promessa: “Andrò in America con la mia famiglia a lavorare duro e fare soldi sufficienti. Al ritornare tutti insieme, farò una cappella nel camposanto, per non partire mai più”. Fece il  segno della  croce, usci della chiesa e tornò a casa sua  lentamente. La campana risuonò  undici volte.

Al momento della partenza, abbracciò sua moglie, baciò la fronte di suo figlio e con i suoi 20 anni incomincio il viaggio, che dopo 37 km, lo avrebbe portato verso la città di Lucca, in carro per una strada sinuosa, stretta e sassosa. Di li a Genova, e dopo, un mondo sconosciuto pieno di opportunità. Portava con sè una manciata di lire ed un notevole sentimento monarchico. Il tempo passato in Argentina lo porterebbe a ingrandire considerebolmente tutt’e due queste cose.

La sirena suonò e la nave incominciò ad allontanarsi con lentezza dal molo. Nicodemo alzò i risvolti della sua giacca, e senza lasciarle,  incrociò le braccia strette contro il petto. Guardò per lungo tempo la sua cara terra con nostalgia, chiuse gli occhi che brillavano come mai e a modo d’inventario ripasò tutte le sensazioni che lo accompagnerebbero nel suo esilio: l’ odore del pane casalingo tostato che faceva sua madre e che ungiva con allio e olio d’oliva, il vino fresco che lui stesso aiutava a imbottigliare, il sapore dei funghi appena raccolti nella campagna e delle castagne abbrustolite, il serpeggiare della Turrite fra i sassi, lo sguazzare delle trote saltando contro corrente e l’umida e fresca vegetazione della Garfagnana.

Quando riaprì gli occhi il vapore già infilava la sua prora verso il sud. Mai avrebbe immaginato questo giovanotto semplice e pieno d’illusioni che lascerebbe impronte così profonde nei suoi discendenti che non conobbe mai, e che nonostante la sua intolleranza, oggi incomprensibile, sarebbe ricordato con affetto più di 130 anni dopo la decisione di lasciare la sua cara patria. Nemmeno immaginò che non avberbbe mai potuto compiere completamente la sua promessa.

Capitolo II: Il pioniere diventa imprenditore. 1866-1882

Nella baracca per gli immigranti nel porto di Buenos Aires il caldo era insopportabile. Non capiva la lingua che parlavano in questa terra ma percepiva autoritarismo e sottovalutazione. Comunque, prima che finisse gennaio del 1866 abitaba già in una casa affittata insieme ad altri due compaesani toscani che aveva conosciuto sulla nave.

Con essi iniziò degli affari che in qualche modo lo manteneva legato alla sua terra: la vendita di prodotti italiani, vini, olio e spezie con un buon risultato economico. Tanto fu cosi che potè inviare presto a sua moglie, i soldi sufficienti per il viaggio e qualcosa in più da lasciare a sua madre.

Rosa partì dall’Italia 11 mesi dopo Nicodemo, avendo 22 anni, con la nave Arpocrate, lasciando il suo figliuolo, di solo 18 mesi d’età, a cura di sua suocera. Arturo potè ritrovare i suoi genitori a Buenos Aires a l’età di 7 anni, quando viaggiò con la nonna paterna. In quel momento non solo ri-conobbe i suoi genitori, ma anche una sorella nata in Argentina, di 3 anni, e trovò sua madre nuovamente  incinta.

Finalmente la famiglia si era riunita un’altra volta. Tutti erano felici di quel incontro. Così passarono parecchi anni di vita familiare e di crescente prosperità economica.

Nel 1878, anno della morte di Vittorio Emmanuele II, continuando  con il suo buon istinto per gli affari, Nicodemo creò nei dintorni di Buenos Aires, una fabbrica di splosivi per vendere all’industria ferroviaria. Per la attivita svolta in questo campo si  meritò diversi diplomi nella prima Esposizione Industriale Operaia Italiana ed un altro dal Club Industriale Argentino, per la sua produzione. I diplomi erano firmate dal presidente della repubblica, Julio Argentino Roca e dal Ministro di Economia, Victorino de la Plaza.

Vicino alla fabbrica incominciò a costruire la sua propria casa, su due piani di stile classico italiano, che, per molti anni, concitò l’ammirazione di importanti personalita dell’epoca e che a tuttoggi e ammirata per la sua antica eleganza nella città di Ezeiza. La chiamò Santa Barbara, per attirare, vanamente, i favori di la velleidosa e schiva patrona delle polveriere.

Erano passati soltanto quattro anni dalla innaugurazione della fabbrica, quando a pochi chilometri di lì si fondava una delle più moderne città del mondo. Il disegno urbanistico era rivoluzionario. Strade che si incrociavano ortogolnalmente, ogni sei di loro c’era un ampio viale, nella intersezione di ogni viale, una piazza, e con diagonali che accorciavano le distanze tra i luoghi oposti. Grandi ed imponenti edifici si costruivano a velocità dificile d’igualare. La città si chiamò La Plata. Nello stesso anno moriva a Caprera, Giuseppe Garibaldi, circondato dal mare che tanto aveva amato.

Arturo era molto giovane e presto doveva transitare la strada che spettava a un uomo da bene, primogenito e maschio: farsi una professione, sposarsi, sostituire suo padre nel lavoro ed essere il suo orgoglio. Pensando a ciò Nicodemo mise i suoi occhi sulla nuova città e comprò a nome di suo figlio maggiore, due buone case, anche se un poco lontano dal centro, quasi in periferia, in via 9 angolo 60. Aveva riposto tante speranze sul suo delfino, che ai suoi altri figli Enriqueta e Jacinto, che amava tantissimo, neanche aveva dato loro educazione, mentre che decise inviare Arturo a studiare medicina in Italia, una volta finiti i suoi studi in Buenos Aires.

Nicodemo toccaba con la punta delle dita il suo sogno di gioventù. Niente faceva pensare che le cose cambierebbero. Che la vita ha le sue proprie regole che nessuno può controllare. Che la speranza delude sempre. Che la felicità non fa contratti a lunga scadenza. Che la fortuna è una bugiarda che gioca con i mortali. Che gli astri scherzano con le nostre sicurezze. Che i sogni possono svanire.

Capitolo III: I sogni crollano. La storia si biforca. 1882-1898

Mentre il suo esito economico cresceva, i mattoni, con i quali Nicodemo aveva costruto la sua felicità, cadevano uno a uno.

Prima la relazione con sua moglie cominciò a deteriorarsi. Due personalita irreconciliabili: un uomo d’affaie fermo nelle sue convinzioni, con una certa preparazione intelttuale e molti rapporti sociali davanti ad una donna analfabeta, chiusa in sè stessa, con un carattere molto forte,  rude maniere e con linguaggio aspro. Il risultato fu tanto inevitabile come sperato: una lunga separazione, la apparizione di un’altra donna e a giugno di 1892, il divorzio dopo quasi trent’anni di matrimonio.

Nel 1890, vittima di una terribile malattia muore la sua unica figlia, all’età di 21 anni, lasciandogli un profondo dolore, che lo tormenterà, in silenzio, per sempre.

All’età di vent’anni, Arturo fu inviato in Italia a studiare medicina. Entusiasmato dalle idee politiche imperanti in Italia in quel momento, si avvicina al movimento anarchista, lascia la carriera e si vede costretto a ritornare in Argentina. Nicodemo, provò disprezzò per il figlio, lo ripudiò e lo diseredò, rompendo per sempre ì il rapporto fra di loro. Da quel momento ripose tutte le sue speranze nel altro figlio, che seguendo suo padre, anche lui ruppe le relazione con il proprio fratello.

Abbastanza disorientato, e con pochi soldi, Arturo vagò per Buenos Aires finchè conobbe Alaide, una bella ragazzina italiana dagli occhi molto chiari, nata, guarda caso, in un paese vicino al suo. Questa coincidenza contribuì ad avvicinarli e si sposarono un anno dopo. Lui aveva 24 anni, lei 18. Andarono a vivere in una delle case che il padre Nicodemo gli aveva comprato in La Plata.

Da questa unione nacquero 8 figli: Quattro maschi e quattro femmine. Tutti i maschi morirono in età precoce per diverse cause: i tre più piccoli prima di compiere l`anno. Il maggiore entusiasmato dalla novità del momento che appena si conosceva, volle essere aviatore. Alaide impedí la realizzazione di questo desiderio per i pericoli che questa attività comportava. Questo ragazzo  morì ai 18 anni vittima di una infezione causata da una piccola ferita, che oggi, la più semplice delle pomate antibiotiche l’avrebbe guarito in meno di 24 ore. La più piccola delle femmine, chiamata Clelia, in onore a  una delle figlie di Garibaldi, divenne mia madre.

La vita di questa nuova famiglia, trascorse nella tranquillità della nuova città al’riparo dei tigli, castagni, jacarandai e acacie, che crescevano vigorosi, profumando e facendo ombra su gli ampie viali. La povertà in che vivevano costrattava grandemente con l’abbondanza nella quale Arturo era cresciuto. Soltanto la fortezza e l’abilità di Alaide permise che questa povertà fosse sopportata con dignità.

Tutte le loro figlie studiarono, diplomandosi come maestre, mentre la maggiore si laureò nel 1918 come Dottoressa in Chimica, con grande merito per lei pensando che non solo è stata la  prima donna all’Università di La Plata ad ottenere questa laurea, ma anche perchè la ottene con i massimi voti ed onori.

Senza soldi e senza la protezione della famiglia paterna non si davano le condizione adeguate per svolgere una vita sociale attiva. Solo in pochissime occasioni, e tutte relazionate con la collettività italiana, Arturo partecipava a qualche riunione, come quella realizata nel 1900 in occasione della inaugurazione del monumento agli italiani in piazza Italia. In alcuni ocasioni, participò ai balli organizati dalla Società Unione Operai Italiani di La Plata, organizzati nel 1898,  per riunire fondi da inviare in Italia come donazione patriotica. In quelle ocasione si potevano ascoltare le piu belle ed  allegre canzoni italiani come tarantelle e canzonette napoletane. Il giovane giornale “El Dia” di La Plata, annunciava questi eventi nella sezione “Sociali”.

Purtroppo, prima di finire quest’anno, lo stesso giornale abbreve informato circa un tragico accidente che abbreve inferto un altra ferita, forse l’ultima, al già tanto colpito Nicodemo.

Capitolo IV. Fine di festa. 1890-1914

La sentenza di divorzio tra Nicodemo e Rosa, fu firmata a richiesta di sua madre, analfabeta, da Arturo. Se c’era ancora qualche magro filo nel rapporto tra padre e figlio, questo sparì definitivamente prima che l’inchiostro della firma si asciugasse. Con una durezza incomprensibile vista con gli occhi di oggi, Nicodemo taglia ogni rapporto anche con tutto il ramo  familiare di Arturo, fino al punto di non voler vedere più ne anche sentir parlare delle sue nipoti.

Nella separazione dei beni, Nicodemo riservò per sè la fabbrica di polveri e la casa “Santa Barbara” che era ancora in costruzione, se bene quasi finita, e Rosa ricevette altre case e soldi in contanti.

Faustina era italiana, cantante d’opera, ventiquattro anni più giovane di Nicodemo e diverrebbe sua compagna e finalmente legittima sposa fino alla morte. Quando andarono a vivere insieme nel 1890, lui aveva 46 anni e lei 22.

Alla fine della costruzione, la “Santa Barbara” fu inaugurata con una grande festa meravigliosa, alla quale parteciparono le persone più importanti della politica e della società di quell’epoca. Era una casa elegante, di solida costruzione, finemente decorata, con i soffitti dipinti con colori pastelli con figure allegoriche secondo l’uso di ogni stanza. In un luogo privilegiato, come non poteva essere altro, c’erano due grandi ritrati, ad oleo, dei reali d’Italia.

In ogni stanza pendevano grandi lampadari di lucido bronzo con lacrime di puro cristallo, alimentate a gas di carburo, pendendo da grandi rosettoni di gesso, rappresentando foglie d’acanto e ghirlande, dipinte artisticamente e con dettagli ricoperti da lamine dorate. I mobili erano di pregiati legni, finemente scolpiti e impecabilmente lucidati. Nella stanza principale faceva bella mostra una grande stufa in ferro fuso, decorata con ceramiche dai sobri colori. Le stoviglie di porcellana inglese, la cristaleria di Bohemia e le posate d’argento con monogrammi incisi allo stile francese, brillavano senza pudore sopra le tovaglie di immacolato filo bianco ricamate. In cantina, più di 1500 bottiglie di squisito e profumato vino italiano, aspettavano il loro destino finale.

Nel bel mezzo della festa, a ventitre ore, i commensali erano invitati a andare in sala da musica, dove c’era un novissimo pianoforte “Rachals”, tra le mani d’un elegante interprete. In piede accanto a lui sostenendo le partiture, Faustina, con abito da sera di seta nera, cantava quasi alla perfezione per il piacere di tutti i presenti, arie di Verdi e della nuova opera lirica, “Manon Lescaut”, di un giovane compositore nato nella città di Lucca, di nome Giacomo Puccini, a cui si augurava un futuro venturoso.

 La festa durò quasi all’alba. Il giorno dopo gli incaricati della pulizia rimisero tutto a posto e la coppia incominciò la vita nella nuova casa, dove altre feste come quella si ripeterono in parecchie occasioni, anche senza lo splendore della prima. Questi lussi aiutavano Nicodemo a sopportare i suoi fallimenti familiare.

La fabbrica di polveri era un buon affare. Ma molto rischioso. Verso la fine di 1898, per cause sconosciute, la fabbrica esplose, provocando la morte di 6 persone morte e la distruzione quasi totale dello stabilimento. L’altro figlio di Nicodemo si salvo per miracolo. Giornali importanti come “La Nación” e “La Prensa” tra gli altri, pubblicarono in prima pagina la catastrofe e durante parecchi giorni informarono circa i dettagli dell’incidente. Anche il quotidiano “El Dia” di La Plata comunicò la notizia. Se fosse mancata qualcosa per dare il colpo definitivo alla sua esperienza in America, questo successo lo fu. Era il momento di pensare al ritorno.

Con parte della sua fortuna fece costruire nel suo paese natio  una casa simile alla “Santa Barbara” e ricordando la promessa fatta al partire, costruì una capella nel cimitero locale, per deporre le sue ossa il giorno in cui il Signore lo decidesse. Il 7 giugno 1913 dopo aver venduto tutto a buon prezzo, ritornò definitivamente nella sua cara Italia, accompagnato da sua moglie, nella prima classe della nave Principessa Mafalda. Tutti i suoi soldi li donò alla causa italiana, riservando per se il necessario per vivere modestamente.

In Italia i rumori di guerra imminente si sentivano ogni volta con più intensità.

Capitolo V. Cade il sipario. 1911-1918

Arturo moriva a La Plata nel 1911 sommando in questo modo al dolore della irrimediabile perdita, l’aumento delle penurie economiche che soffrivano la moglie e le figlie. Mia madre, la più piccola di loro, aveva 6 anni. I pochi soldi erano appena sufficienti per pagare gli studi alle bambine e per la pasta con le polpette e le braciole, che mai mancavano a tavola.

Quando Agnese, la figlia maggiore di Arturo si laureò in Chimica, non avendo piu suo padre, e per rispetto alla figura patriarcale di suo nonno, capì che a lui doveva communicare la sua riuscita ed anche il fatto di essere stata richiesta in matrimonio da un giovane collega.

Per questo, scrisse parecchie lettere in Italia dirette al suo “ Caro nonnetto” dove diceva “...anche se lei è arrabbiato con noi, noi le vorremo sempre bene...”, “...voglio farLe sapere che sono riuscita ad ottenere il titolo di Dottoressa in Chimica...”, “... sempre pensiamo all’ Italia e non facciamo altro che pregare perchè finisca questa maledetta guerra...”, “... anche se non ho ricevuto nessuna risposta alla lettera precedente, non tralascierò mai di scriverLe, per farle sapere il mio recente compromesso. Anche se Lei mi ha proibito di scriverLe, credo che il nonno di una ragazza, deve essere il primo a ricevere la notizia...”.

Tutte queste lettere sono arrivate a destino, ma così come sono arrivate, senza nemmeno aprirle, furono messe in una busta e spedite a Jacinto, il fratello di Arturo, il quale senza fare nessun commento, le metteva da parte con cura. Tanto Alaide, come le sue figlie non seppero mai quello che era successo con quelle lettere.

Il 18 dicembre 1918, appena un mese dopo la firma dell’armistizio che mise fine alla prima guerra mondiale, Nicodemo muore senza la compagnia di nessuno dei suoi parenti di sangue. Fu messo nella capella che lui stesso aveva fatto costruire all’ingresso del cimitero del suo paese. Ognuna delle quattro figlie di Arturo formò la sua famiglia e nessuna di loro, torno a parlare mai piu di quello che era successo.

Epilogo. L’omaggio. 1998

A settembre 1998, avendo conosciuto questa storia da poco tempo, viaggiai con i miei figli a Lucca con il proposito di visitare il luogo d’origine della mia famiglia. Rifaccemo indietro i 37 km percorsi per arrivare al paese di nascita di mio nonno, in una comodissima fuoristrada con l’aria condizionata per una strada pavimentata, larga e perfettamente segnalizzata. Il cimitero è lungo questa strada quasi al arrivare al paese, prima della zona urbana. Ci fermammo di fronte alla capella di Nicodemo, recitammo una preghiera e lasciammo un fiore.

Dopo proseguimmo fino alla casa di fronte alla Turrite, nella quale Nicodemo visse i suoi ultimi giorni e la percorremmo dettagliatamente. Nella sua camera, commisi l’ insolenza di aprire il cassonetto del armadio e trovai in perfetto stato un abito da sera di seta nera e una partitura. Le palpebre mi caddero lentamente e potei sentire, lontano, ma con chiarezza il suono di un pianoforte e la voce di una soprano cantando arie d’opera. Non volli domandare se qualcun altro l’aveva sentito. Non m’era necessario. Dopo aver mangiato nel ristorante che ora funziona in cantina, riprendemmo il ritorno. Stavamo tutti muti. Era il momento adatto per riflettere sulla vita, i suoi paradossi e le sue contradizioni.

Quelle riflessioni ancora mi accompagnano. Oggi posso unire i due  estremi di una catena famigliare vecchia di oltre 130 anni: il sacrificio pieno di speranza del primo emigrante con l’emozione orgogliosa dell’ultimo discendente. Oggi rimangono come eloquenti testimoni di una storia nascosta, la Santa Barbara in Argentina, la villa in Italia, i diplomi e le lettere. Oggi il tempo trascorso mi permette di non giudicare. Oggi possiamo rivivere con nostalgia la storia dei nostri antenati. Oggi i miei figli sanno perchè, essendo italiani per legge di sangue, sono nati in Argentina. Oggi, i germogli del ramo tagliato rendono omaggio alla loro radice nella sua propria terra.

Oggi sulla tomba di Nicodemo c’è un fiore.

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