L'Appennino non è morto. I montanari ci saranno sempre

( 31 Dicembre 2009 )

O gran bontà de Cavalieri antiqui!”, scriveva l’Ariosto, con una punta di ironia sul mito del passato che dovrebbe affiancare la lettura dell’ultimo lavoro di Giovanni Lindo Ferretti. Il suo “Bella gente d’Appennino” è uno scritto pieno di nostalgia, di poesia, di intelligenza che aiuta a pensare. Per questo lo ringrazio. Lo abbiamo presentato molto volentieri nella sede del Parco. Ma non è da prendere – dobbiamo dirlo - come un vangelo di economia e politica per l’Appennino. Da questo punto di vista (che non è quello dell’autore) il libro esprime una visione nostalgica del passato e disperata per il futuro.

Non è  vero che la Montagna “è morta”. Muoiono le civiltà e anche le formazioni sociali; ma i territori no. I territori rinascono. Di estreme unzioni e certificati di morte del nostro Appennino ne abbiamo sentiti tanti. Ma l’Appennino è vivo. A Cerreto Alpi – paese di Giovanni Lindo – da pochi anni è attiva una cooperativa di giovani che si chiama “I Briganti del Cerreto”. Ce n’è una analoga a Succiso “Valle dei cavalieri”, un’altra ancora a Sologno “Vivere Sologno”… Altre ancora ce ne sono, altre ancora… stanno nascendo. I morti non partoriscono cooperative. E quelli che le creano non si sentono figuranti. Evocare un futuro di abitanti locali come “figuranti e controllori” non mi trova d’accordo. A meno che non sia l’evocazione di un pericolo con la volontà di poterlo scongiurare. Ci sono e ci saranno, come sempre, montanari e montanari… Albergatori e commercianti, operai e impiegati, imprenditori e professionisti, pendolari e immigrati, e poi cacciatori, maestri di sci e cantanti; ma i figuranti sono e rimangono quelli delle rappresentazioni teatrali. L’Appennino, tribolato o meno, con o senza Parco, è invece storia autentica ed è realtà. Per la tutela dell’identità culturale locale, più che di figuranti e controllori, che non si sono, mi preoccuperei di qualche eccessiva venerazione di cui è oggetto la birra tra i giovani, e di qualche alcool-dipendenza di non giovani, che non discende dal gusto del buon vino ma piuttosto dall’emarginazione e dalla disperazione. Guardando il futuro, non ho difficoltà ad ammettere che la parola “Parchiland” segnala un pericolo di nuove alienazioni e nuovi conformismi. E’ un pericolo presente da tempo nei Parchi come in ogni espressione della modernità. Nel 1997 – parliamo di dodici anni fa – il Parlamento ha discusso di come riformare la legge sui Parchi, per introdurre nelle finalità primarie degli stessi i valori storici, antropologici e culturali. E la tutela dell’identità locale. E’ stato messo in evidenza, già allora, il rischio che i Parchi diventassero “luna park”. E da allora alcuni antidoti contro questo rischio sono scolpiti nelle norme riformate della legge 394: la legge quadro italiana sulle aree protette. E qui da noi, col progetto Parco nel mondo – dedicato proprio alla gente di Appennino di ieri, oggi e di domani - abbiamo affrontato di petto questo tema. E coi fatti. C’era anche Giovanni Lindo, a Cerreto Alpi, pochi mesi fa, alla cerimonia della cittadinanza affettiva per Enzo e Ardino Ferretti. Non sono mai stati dei figuranti e non lo sono stati neanche quel giorno lì. E’ stata una sagra di memoria, di identità, di sentimenti, di amicizia, di comunità. Altro che Parchiland. L’identità locale e la civiltà agrosilvopastorale degli Appennini sono state colpite e disperse dalla civiltà industriale e dal suo pensiero unico. Non certo dai Parchi. Questi sono venuti dopo. E sono nuovi editori di quell’antica identità. In un certo senso possono rappresentarne una reincarnazione. Certo, è una sfida tutta da vincere, ma l’alternativa ai Parchi sui crinali dell’Appennino non è la società agrosilvopastorale di un tempo, che non può tornare, ma solo l’essere sempre più periferia dei distretti industriali e delle città. Periferia – cioè luogo di dipendenza senza identità – proprio rispetto ai territori ed ai valori – urbanizzazione e industria – che del mondo agrosilvopastorale sono stati storicamente conquistatori e carnefici. Dall’analisi acuta alle proposte concrete c’è un bel tratto di strada da fare. Come dalla letteratura alla storia e dalla poesia alla società. Di Giovanni, e di “Bella gente d’Appennino” teniamoci la capacità di provocare riflessione, l’amore per l’Appennino, la ricerca appassionata della sua identità, e la poesia delle parole. In fondo, non è poco. Anzi è moltissimo. E’ un libro da leggere.

Fausto Giovanelli

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